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mercoledì 27 maggio 2009

E poi c’era la trebbiatura.







Mi ricordo di quelle sere d’estate passate a “prendere il fresco” nelle scale della torre; molte volte si chiacchierava nel silenzio più assoluto e c’erano solo il gracchiare di qualche cicala ritardataria che non voleva ancora zittirsi ed il canto dei grilli ed un cielo completamente stellato; nell’orto, ogni tanto si sentiva qualche rumore indefinito dovuto, forse, a qualche istrice o qualche altro animale notturno: In lontananza si sentiva il “vecchio del campino” che cantava stornelli di poesia dove c’era di mezzo sempre qualche amore e qualche donna ed un cane da caccia di Casapaolini che abbaiava.
Eravamo noi, "poveri diavoli” e l’universo e sentivamo di essere soli e, nello stesso tempo, in armonia con l’infinito. Ogni tanto occorreva dire qualcosa.
“Domani arriva la macchina per tribbiare” “prima va da Salvatore e poi da Pasquale”. Ed io pensavo: ”allora si tribbia, incomincia il divertimento anche se molto stancante”. Ormai lo conoscevo abbastanza bene il “rito profano della trebbiatura”. Me lo ricordavo come un grande affaccendarsi di uomini, fin dal primo mattino, con quel “mostruoso” grosso arnese rosso, venerato come un totem, che si arrampicava faticosamente per quelle strette vie in salita di Via del Sorbino, accompagnato da un gran vociare di uomini, preoccupati che il mostro potesse avere dei danni durante la salita e che facevano strada indicando le traettorie migliori; alcuni erano trafelati per il solo fatto di mettersi in mostra. Ma la faccenda era seria davvero : c’era di mezzo la raccolta del grano e quindi la vita. Durante la giornata poi era un alternarsi di duro lavoro e di divertimento che si traduceva in un pranzo luculliano, troppo abbondante, bello e colorito nello stesso tempo, dove le massaie cucinavano e servivano. Ero piccolo ma mi ricordo la genuinità di quelle donne robuste, sane e vere, con quelle pettinature che non si vedono più e che, penso, anche oggi farebbero ancora piacere agli uomini assieme a quelle vesti modeste che lasciavano intuire che sotto c’era una gran bella stoffa e quelle facce non troppo abbronzate ma con le gote rosse.  A qualcuna, come per una “boutade” dovuta solo a quella festa, si vedeva, a volte, un lembo del sottabito.
Gli uomini, con i fazzoletti rossi sulla bocca, erano tutti quasi esaltati dal lavoro: imboccare le manne nel mostro, insaccare il grano che pioveva, a mio parere, troppo abbondante, raccogliere e pressare la paglia. Si respirava un’aria di rito atavico e pagano. Gli animi degli uomini erano molto accesi, quasi che quel lavoro li scavasse nel profondo. Noi ragazzi avevamo il nostro posto: ci facevano tagliare i fili di ferro che legavano le presse. Era un lavoro noioso ma ambito, il preludio di altri lavori di maggior “caratura” che forse un giorno non troppo lontano potevamo fare anche noi: gestire il trattore che muoveva il tutto ed imboccarlo di benzina, scaricare le manne, imboccare il mostro, insaccare il grano. Ed intanto le nane che non avevano dovuto, per questa volta, andare nel tegame e nei piatti, scorrazzare contente nel piazzale, beccando, assieme ai polli,i chicchi del grano che erano rimasti nelle fessure dei mattoni che pavimentavano l’aia.
La pula di trebbiatura si stava diradando, in lontananza si sentivano i rumori delle posate che le donne stavano rigovernando, con molto baccano.
Il rito pagano si avviava alla fine; il sole stava calando e domani si ricominciava tutto da capo da Pasquale. 

Tratto da "Ancajano - la porta di Jano" ancora "unpublished"- copyright reserved


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